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La tragedia dimenticata della prima guerra mondiale: la decimazione della popolazione libanese
Quando pensiamo alla prima guerra mondiale, spesso ci concentriamo sul fronte occidentale, sulla guerra di trincea e sulle potenze europee. Tuttavia, il teatro mediorientale della guerra, in particolare nella regione che sarebbe diventata l’odierno Libano, vide la sua versione di devastazione, spesso trascurata. All’epoca, il Libano faceva parte dell’Impero ottomano e gli anni della guerra portarono carestia, malattie e brutalità alla sua gente. La popolazione totale del Libano all’inizio della prima guerra mondiale era di circa 400.000 persone, ma alla fine della guerra, quasi la metà di quella popolazione, 200.000 persone, era morta.

Una carestia dimenticata e l’oppressione ottomana
Gran parte di questa devastazione fu dovuta a una combinazione di fattori, tra cui una carestia esacerbata dai governanti ottomani. L’Impero ottomano, che controllava il Libano durante la guerra, attuò politiche che peggiorarono le circostanze già difficili. Gli Alleati imposero un blocco navale, limitando le importazioni di cibo vitale, e gli ottomani stessi imposero blocchi interni, confiscarono i raccolti e arruolarono uomini per lavori e servizio militare, riducendo ulteriormente la produzione agricola.

Il Libano, in particolare le aree montuose dove il cibo era già scarso, subì il peso della carestia. La fame dilagò, con resoconti contemporanei che descrivono corpi lasciati insepolti per le strade a causa del gran numero di morti. La carestia del Monte Libano (1915-1918) fu così grave che alcune stime suggeriscono che causò più vittime in Libano della guerra stessa. Lo storico David Fromkin nota nel suo libro A Peace to End All Peace che la carestia, ampiamente trascurata dal mondo, ebbe un impatto duraturo sulla popolazione e sulla psiche del popolo libanese.

Un drastico calo della popolazione
Alla fine della guerra, la popolazione del Libano si era ridotta a soli 200.000. Dei sopravvissuti, solo la metà erano cristiani, un cambiamento demografico significativo in una regione in cui i cristiani avevano da tempo costituito una parte considerevole della popolazione. Questo forte calo numerico, unito al sistema confessionale (settario) di rappresentanza politica che si sviluppò nel Libano del dopoguerra, rese l’eredità e le origini familiari cruciali per mantenere l’identità della comunità. Inoltre, nonostante la capacità dell’Impero ottomano di registrare nascite, matrimoni e morti, quando si trattava della popolazione maronita, che si opponeva attivamente al regime, non avere alcun registro era anche un mezzo per sradicare un popolo. Questo è uno dei tanti motivi per cui la Chiesa maronita registrò la storia delle famiglie, come gli El Chemor.

La distruzione totale di famiglie e comunità ha fatto sì che i sopravvissuti diventassero acutamente consapevoli della provenienza di ogni famiglia, di chi era morto e di chi era sopravvissuto. In una popolazione così piccola e devastata, i legami familiari e le origini geografiche sono diventati indicatori essenziali dell’identità. L’enfasi sul confessionalismo, presente fin dal XIX secolo e in seguito sancito nel sistema politico libanese, ha ulteriormente garantito che le famiglie mantenessero registri dettagliati dei loro lignaggi, affiliazioni e radici. Questi registri non erano solo una questione di eredità, ma di sopravvivenza, poiché la rappresentanza politica nel nuovo stato libanese era legata alla propria affiliazione religiosa e alla posizione nella comunità.

L’importanza dell’ascendenza nella società libanese del dopoguerra
Le conseguenze della prima guerra mondiale, unite al sistema politico unico del Libano, hanno dato origine a una società in cui conoscere le origini della propria famiglia è diventata una questione di importanza. La struttura settaria del paese divide il potere tra i suoi principali gruppi religiosi, che oggi includono cristiani maroniti, musulmani sunniti e sciiti, drusi e altri. La rappresentanza politica e la posizione sociale di ogni gruppo spesso dipendevano dal numero di abitanti, creando un ulteriore livello di importanza per sapere dove apparteneva ogni famiglia.

Questo spiega anche perché le comunità libanesi, sia in Libano che nella diaspora, hanno mantenuto un forte senso di connessione con i loro villaggi ancestrali e le storie familiari. Le famiglie hanno tramandato la loro eredità attraverso storie orali e documenti scritti, assicurando che le generazioni future sapessero esattamente da dove provenivano e a quale ramo della complessa struttura sociale del Libano appartenevano. Queste radici sono rimaste vitali nella diaspora libanese, dove l’identità spesso continua a essere legata al proprio villaggio o comunità di origine in Libano.

Conclusione
La devastazione della popolazione in Libano durante la prima guerra mondiale ha lasciato un segno profondo nella storia e nella struttura sociale della nazione. Le politiche ottomane, unite alla guerra e alla carestia, hanno dimezzato la popolazione, con solo 200.000 persone rimaste alla fine della guerra. Di quei sopravvissuti, solo la metà erano cristiani, rendendo l’eredità familiare e l’identità della comunità più vitali che mai. Questo periodo traumatico ha consolidato l’importanza delle origini familiari nella società libanese, un’eredità che persiste ancora oggi. Le famiglie non solo hanno preservato la loro eredità, ma hanno anche fatto in modo che ogni membro sapesse da dove proveniva, contribuendo all’intricato mosaico che costituisce il Libano moderno.

  • Riferimenti
  • Fromkin, David. A Peace to End All Peace: The Fall of the Ottoman Empire and the Creation of the Modern Middle East. Holt Paperbacks, 1989.
  • Firro, Kais M. The Druzes in the Jewish State: A Brief History. Brill, 1999.
  • Maalouf, Amin. The Crusades Through Arab Eyes. Schocken, 1989.
  • Makdisi, Ussama. The Culture of Sectarianism: Community, History, and Violence in Nineteenth-Century Ottoman Lebanon. University of California Press, 2000.
  • Khoury, Philip S. “The Syrian-Lebanese Crisis of 1915-1918”. Rivista internazionale di studi sul Medio Oriente, vol. 10, n. 3, 1979, pp. 383-403.
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